Animula, vagula, blandula…

È sempre tremendamente difficile analizzare l’oggetto dello stupore, della meraviglia, della consolazione. 

Più cerco di scrutare queste pagine con critica razionalità, affannandomi nel tentativo di trovarne un senso unificatore, più paiono vani i miei sforzi, e ancor più oscuro il segreto da decifrare.

Forse, se procedessi con un po’ d’ordine e di rigore, potrei anche capirci qualcosa.

Dunque, sì, dicevo, ordine e rigore. Sulla prima pagina v’è una ferita di inchiostro nero che recita Gabriella Caiazza, 5 gennaio-14 febbraio 2024. 

E poi Mio caro Marco…

Ah, sì, ricordo il motivo per cui mi sono seduta alla scrivania: per tentare di colmare l’abisso che intercorre tra me e quella figura olimpica che ho intravisto in queste pagine; per capire meglio Adriano e, con lui, magari anche me stessa.

In questa difformità, in questo disordine, percepisco la presenza di un individuo, ma si direbbe che sia stata sempre la forza delle circostanze a tracciarne il profilo; e le sue fattezze si confondono come quelle di un’immagine che si riflette nell’acqua.

Sulla soglia dell’estrema vecchiaia si compie l’ultima e più ardua volontà di uno spirito che ha sempre trovato nella ricerca la sua ragion d’essere: studiare se stessi.

Adriano mi pare un uomo che fatica a comprendersi – lui come tutti, d’altronde. La propria identità è una sagoma che continuamente si reinventa, pur conservando gelosamente alcuni attributi essenziali. È un mistero a cui Adriano si accosta con lo stupore di un bambino: cerca se stesso così come per tutta la vita ha cercato – e creato – l’armonia nelle cose. Questa estrema ricerca coronerebbe la sua intera esistenza della compiutezza di cui necessita: solo nell’analisi v’è, infatti, la lucidità necessaria all’ordine.

Il suo mi par quasi lo studio di una consonanza interiore. Da lontano non gli giungono che vaghi suoni indefiniti, ch’egli è stato finora in grado di comprendere, ma non di esprimere.

Mi chiedo se sia questo il motivo per cui ci affanniamo tanto a lasciare un po’ di noi stessi in ciò che facciamo, nella speranza che gli altri comprendano l’inesprimibile.

La vita, per me, era un destriero di cui si sposano i movimenti […] dato che in fin dei conti tutto consiste in un atto volitivo interiore – lento, insensibile […]

Ogni istante della sua vita porta con sé il peso greve di un bisogno non trascurabile: la necessità di equilibrio e di armonia.

Quest’uomo – ormai mio intimo amico – ha consacrato la sua intera esistenza alla ricerca di una formula che legasse insieme vita e scienza, che sapesse conciliare le esigenze del corpo tanto quanto quelle della ragione. 

Vuol essere dominatore, modellatore, scultore della materia vitale, eppure, al contempo, soccombere ad essa. Assecondare la carne – che si logora, lasciandosi ammaliare dal sirenico canto della morte; che si pasce della sua stessa forza, del suo stesso vigore e delle appaganti percezioni dei sensi – mantenendo, però, uno sguardo vigile e razionale su di essa e su ciò che le accade attorno.

Fu verso quell’epoca che cominciai a sentirmi dio. Non mi fraintendere: ero più che mai lo stesso uomo […] ma che altro dirti, se non che tutto ciò io lo vivevo divinamente? 

Questi brusii sommessi che odo provenire da queste pagine – che sfoglio distrattamente – suggeriscono questo: la strenua ricerca dell’equilibrio tra la propria natura di essere umano e l’aspirazione a divenire divinità. Una ricerca che trova la propria risoluzione non nella denigrazione della carne, ma nell’esaltazione di essa, in quanto alma mater dell’intelletto.

Come il viaggiatore che naviga tra le isole dell’Arcipelago vede levarsi a sera i vapori luminosi, e scopre a poco a poco la linea della costa, così io comincio a scorgere il profilo della mia morte.

Allo stesso modo, io inizio a scorgere il profilo di Adriano. Lo vedo posare con delicata fermezza un piede su una terra sconosciuta, stordirsi con gli effluvi di quella bellezza straniera, ammirare la limpidezza di un fiume, la cristallinità del gelo, cullarsi sui suoni di una lingua forestiera.

La curiosità è il motore della vita: una forza grandiosa che non ammette risoluzione alcuna e che, anzi, continuamente si rigenera. Non di rado ho creduto che sia ciò che consente all’uomo di sentirsi dio: tant’è che spesso l’ardore della scoperta è tanto intenso da trascendere le apparenze della fisicità per inoltrarsi nei più reconditi antri dell’immaginazione.

Dunque, dicevo, inizio a scorgere il viso di Adriano. Ogni tentativo di concretizzare il suo estremo desiderio di sintesi e concordia ha tracciato un solco sul suo viso. Ogni città fondata, ogni popolo riappacificato, ogni periodo di pace nient’altro è che un attimo di respiro per gli uomini. Tanto più si avverte la necessità di tale respiro, tanto più si è dolorosamente consapevoli della sua caducità.

Fu allora che mi strinse il cuore la malinconia di un istante: pensai che le parole adempimento, perfezione, contengono in sé la parola fine.

Ma il vero saggio non è colui che abdica, bensì colui che affronta. E così la voce di Adriano mi racconta – perché, sì, finalmente le sue parole mi giungono più chiaramente alle orecchie – di come ha affrontato la morte, il lento lasciarsi andare del fisico, l’idea di dover distruggere quel fragilissimo ponte di comunicazione con tutto ciò che v’è al di fuori di noi.

Sì, più ascolto queste parole più mi convinco che la saggezza è esattamente questo. Osservare pacati – ma non insensibili – lo scorrere delle ore, l’andirivieni dei popoli, e fare della propria sofferenza il più profondo strumento di analisi. Il mio interlocutore non è tanto superficiale da dirmelo chiaramente, ma questo è ciò che ogni suo singolo sospiro tra una parola e l’altra mi suggerisce.

TRAHIT SUA QUEMQUE VOLUPTAS: ciascuno la sua china; ciascuno il suo fine, la sua ambizione, se si vuole, il gusto piú segreto, l’ideale piú aperto. Il mio era racchiuso in questa parola: il bello, di così ardua definizione a onta di tutte le evidenze dei sensi e della vista. Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo.

E poi, ah, quanta nostalgia mi par di percepire. Ho davanti agli occhi  – come fossero i miei – i ricordi di giorni luminosi, irrorati d’una gloria ben più nobile e immortale di quella che si nutre di bieca sopraffazione. Giorni in cui la natura dischiude, allo sguardo dell’uomo attento, il suo più intimo segreto, e lo sussurra all’orecchio del suo beniamino. Pronuncia parole limpide, meravigliose. 

Ho davanti agli occhi i templi e gli edifici che dal nulla si innalzano per dar prova dell’umana grandezza; vedo l’armonia delle sculture, la bellezza della prosperità, il piacere della scoperta. Eppure eccola lì, una bellezza più subdola, mascherata da un luttuoso camuffamento. La bellezza della fine nella sua compiutezza, nella sua irraggiungibilità: è l’immenso che l’uomo non è in grado di contemplare.

Adriano mi confessa che la morte è la terra straniera che lo attende, il suolo su cui ancora non ha posato la sua orma. Non vuole morire: ha amato troppo la linfa vitale per poterla abbandonare senza un grande rimpianto. Perfino nella vecchiaia ha saputo trovare qualcosa di cui godere.

Eppure sono certa che si stia cullando nella consolazione che proviene dalle cose compiute, perfette, terminate. In questo preciso istante, è e non diventa

Con un po’ di timore reverenziale, volto la testa, smetto di ascoltare le sue parole, e mi stupisco, tra me e me, di quanta florida ricchezza sia fiorita, con gli anni, nell’animo di un solo essere umano. Lascerò al vento le parole che ancora sta bisbigliando circa la morte e il suo significato, e tengo invece stretto a me quel precetto che, durante la nostra conversazione, ha risuonato in ognuna delle sue parole: 

La vita è atroce; lo sappiamo. Ma proprio perchè aspetto tanto poco dalla condizione umana, i periodi di felicità, i progressi parziali, gli sforzi di ripresa e di continuità sembrano altrettanto prodighi che compensano quasi la massa immensa dei mali, degli insuccessi, dell’incuria, dell’errore.

E così mi discosto del tutto dalla mia controparte. Ancora stordita, meravigliata, incredula.

Ribadisco quanto ho scritto all’inizio: è gran fatica analizzare lo stupore. E tanto è vasto il mondo su cui mi sono affacciata che temo, con le mie parole, di aver dato vita alla più scialba banalizzazione. Aveva ragione Virginia Woolf quando diceva che la vita fa a pugni con la poesia: mai riuscirò, con queste parole così rigide e inflessibili, a rendervi partecipi del mio fortunato incontro.

Ma, almeno, mi sono finta una scrittrice che si rispetti.

Lascia un commento