
Come potrei non essere un lupo della steppa, un sordido anacoreta in un mondo del quale non condivido alcuna meta, delle cui gioie non vi è alcuna che mi arrida?
È così che è iniziata la mia esperienza di letture hessiane.
Penso che “Il lupo della steppa” sia il romanzo più bello che abbia mai letto fino ad ora, non solo per la particolarità dei temi e la maestria con cui Hesse ha saputo svilupparli, ma anche perché mi sono sentita affine al protagonista, Harry Haller, e alle sue riflessioni come mai mi era accaduto prima.
La difficoltà nell’adattarsi una vita troppo superficiale, “la vocazione dell’assoluto”, il disprezzo per questo presente privo di ideali, la dura convivenza con la sua duplice personalità: ecco come potrei descrivere Haller in poche parole. Diviso tra l’Harry “uomo” e l’Harry “lupo”, tra le letture di Goethe, la musica di Mozart e il triste mondo degli eccessi.
L’uomo non è una forma fissa e permanente […], ma è invece un tentativo, una transizione, un ponte stretto e pericoloso fra la natura e lo spirito.
Nella “dissertazione sul lupo della steppa” (soltanto per pazzi!), Harry Haller viene accuratamente descritto in maniera quasi impeccabile: la schiacciante consapevolezza della molteplicità del proprio io, lo straziante conflitto tra l’uomo e il lupo, l’idea del suicidio come via d’uscita, l’incapacità di adattarsi al mondo che lo circonda.
Harry Haller può quasi essere considerato come la personificazione di tutti quegli uomini che chiedono sempre il massimo dalla vita e difficilmente si conciliano con la sua rozza stupidità. È continuamente spinto dal suo desiderio di Eterno, di Assoluto, di un passato senza tempo, si rifugia nella magnificenza dell’arte e della musica, nelle parole dei grandi poeti e degli artisti.
L’arte ha il potere dell’Assoluto.
Ma perché? Perché quasi tutti gli artisti, gli scrittori, i filosofi, i musicisti, sono immortali. In vita loro non hanno preso troppo sul serio la frivolezza dell’esistenza: ci hanno riso sopra. Si sono elevati attraverso l’umorismo, si sono letteralmente presi gioco della stupidità della realtà.
Tutta la vita è così, caro mio, e bisogna prenderla com’è; e chi non è asino ci ride. La gente come lei non ha il diritto di criticare la radio o la vita. Impari prima ad ascoltare! Impari a prendere sul serio quello che merita di essere preso sul serio, e a ridere del rimanente! O ha fatto lei qualche cosa di meglio, qualche cosa di più nobile, di più savio, di più fine? Nossignore, non l’ha fatto. Lei, signor Harry, ha fatto della sua vita la storia di un’orrida malattia, della sua intelligenza una disgrazia.
Hermann Hesse, ad un certo punto, ci sorprende: entra nella storia. Si trasforma in un personaggio, Hermine, incaricata del compito di aiutare Harry e di rieducarlo alla vita. E considerato che Harry rappresenta l’autore sotto molti aspetti, Hesse decide di ricoprire quindi un duplice ruolo nella storia, di essere al contempo l’apprendista e il maestro.
Un romanzo che ti lascia senza fiato, che ti sorprende con quella “filosofia nietzschiana di sottofondo” e che alla fine dà quasi l’impressione di svegliarsi, ebbri, dopo un sogno fin troppo intenso.


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