Risurrezione /ri·sur·re·zió·ne/ sostantivo femminile: ritorno dalla morte alla vita
“Lazare, veni foras: la scrittura è resurrezione”
Nadia Fusini, prefazione a La signora Dalloway di V. Woolf
Un giorno, a scuola, un mio professore mi disse – tra una risata e l’altra, tentando forse di mascherare con la sua consueta ilarità una triste verità più profonda di quel che potesse sembrare all’apparenza – che l’insegnamento era morto. L’aveva detto sorridendo, e avevo sorriso anch’io, per consuetudine, ma senza capirne davvero il motivo.
Quell’uomo stimolò, così, la mia frenetica curiosità, tanto che per giorni mi persi in profondi abissi di riflessioni, dando inconsciamente il via ad un’intensa attività di ricerca (minuziosa, attenta, scientifica quasi) del fenomeno che mi era stato messo sotto gli occhi. Mi concentrai molto – eccome, se mi concentrai! – al fine di scovare in quegli uomini e quelle donne seduti dietro la cattedra una parvenza di colpevolezza, una traccia del loro peccato originale: quello, cioè, di aver ucciso l’insegnamento a suon di apatia e banalizzazioni.
Com’erano bravi a dissimulare le loro colpe. Per un po’ m’illusero quasi di essere incoscienti della loro reità e, in cuor mio, li perdonai, giudicandomi forse troppo pretenziosa.
Eppure sempre di più notavo, con uno sconforto paragonabile quasi alla disperazione, la superba dotta ignoranza di quegli educatori che avrebbero dovuto istruirmi e che, al contrario, mi lasciavano sola in un mondo pieno di domande e interrogativi senza risposta. Quasi mi pareva che la catartica potenzialità della cultura – quella di lenire gli affanni dell’anima e, così, offrire una qualche ragione d’esistere – fosse stata da loro stessi cautamente riposta lontano dalla propria vista malfunzionante, in un cantuccio impolverato e inesplorato.
Dopo mesi di ricerca, m’accorsi finalmente della vanità del mio sforzo. Mi rassegnai allo sconforto. Tra i banchi di scuola, sonnecchiavo annichilita, e leggevo parole vuote, che non capivo. A quel tempo neanche credevo di avere la forza di dare un senso autentico alla mia esistenza, e così voltai placidamente lo sguardo verso un mondo di facile indifferenza. Questa subdola dinamica di arrendevolezza giustificata crea un circolo vizioso di deresponsabilizzazione: quelle anonime figure che scrivevano sulla lavagna parole e numeri che non capivo diventarono il mio capro espiatorio.
Era colpa loro. Era tutta colpa loro.
E quella rabbia furente che ruggiva in me – la rabbia per la loro palesissima colpevolezza e la mia inequivocabile innocenza – si trasformò pian piano in odio, e poi in ostilità verso tutto ciò che vagamente mi riportasse alla memoria il ricordo di quelle ore vuote trascorse in classe.
L’esito di questa mia presuntuosa rivoluzione interiore fu quello di condannarmi ad anni di noia. Mi crogiolavo in un abulico non-tempo, in un eterno presente in cui poco mi curavo di ciò che mi sarebbe capitato il giorno dopo, giacchè ogni mattina si susseguiva uguale all’altra, e così le settimane e i mesi.
Ma accade, per caso, che la vita riesca ad infiltrarsi anche nelle crepe più sottili, nelle serrature ben chiuse, e che serpeggi furtiva negli antri più reconditi, fino a risvegliare perfino la volontà più silente.
Ora, mentre scrivo, ripenso a quella magnifica biblioteca in cui, un giorno, mi ritrovai casualmente – per sopperire a quella stessa noia a cui mi ero auto-condannata per una sorta di pigrizia congenita.
La mia iniziazione a quel tempio sacro m’atterrì, sul momento.
Quei libri mi ricordarono, d’un tratto, di tutte le vite che non posso vivere. Mi osservavano dalle mensole, giudicanti. Mi ricordarono la mia pochezza, la mia lurida autocommiserazione, la mia deplorevole colpevolezza.
Tornai più volte tra quegli scaffali, e quei volumi divennero sempre più indulgenti con me: iniziarono a parlarmi con parole di conforto, eppure sempre mi sfuggivano.
Questa sensazione, per quanto scomoda, mi si è rivelata salvifica in quei momenti di pesantissimo vuoto: è una promessa, una speranza di vitalità, di conoscenza, di realizzazione.
E questa stessa sensazione iniziò a sorridermi placida ogni mattina, quando varcavo la soglia di quella biblioteca. L’uomo seduto al di là della scrivania mi sorrideva a sua volta mentre si affaccendava al computer: probabilmente da lì a poco avrei iniziato a parlargli delle mie ultime letture o di quelle ancora in programma, oppure sarei corsa in classe dopo un breve saluto realizzando di essere tremendamente in ritardo.
A fine giornata, spesso mi sorprendevo a ripassare davanti a quella scrivania o tra gli scaffali pieni di volumi impolverati senza una ragione. Forse per abitudine, forse per noia: o, forse, perché volevo cercare di acchiappare quelle vite che, nascoste tra le pagine, mi sfuggivano.
Tra quegli scaffali scoprii mondi. Quei volumi, raccolti tutti insieme nello stesso posto, fanno sentire il peso della loro materialità, della loro presenza, ti invitano a scoprirli, a perderti.
Pian piano, le quattro mura della mia classe mi divennero sempre meno intollerabili. Nelle ore vuote sfogliavo pagine e leggevo parole che finalmente avevano assunto un significato. Il mio rendimento scolastico non ne giovò, perché sempre rimasi intimamente in conflitto con l’autorità e le costrizioni: ma finalmente mi diedi un senso.
Trasformai il mio avvilimento in furore. Per un po’ mi piacque immaginarmi come Re Lear che urla e si strazia nella tempesta e che attua e realizza se stesso nella sua catarsi.
Quando, una sera, mi sedetti alla scrivania e per la prima volta mi misi seriamente a giocare con le parole, capii il senso più profondo di tutti quei miei sforzi intellettuali. Buttai giù qualche pagina – neanche ricordo bene cosa scrissi – e, dopo aver finito, m’accorsi che erano passate ore. Nel buio della mia stanza, la lampada sulla scrivania illuminava l’altare della mia rinascita.
Si svegliarono, d’un tratto, quelle immagini che giacevano sopite in uno strato appena sottostante alla mia coscienza. Cercavo di acchiapparle, ma sempre me ne sfuggiva qualcuna. Non mi sono mai sentita nata per la poesia (troppo ostica, troppo concettosa), ma sentivo che la mia prosa doveva rassomigliarle il più possibile, nel tentativo di afferrare anche le idee più fuggevoli e amorfe.
Mi s’incollò addosso una stanchezza appagante e una stranissima sensazione di mancanza. Avevo affidato alla carta un pezzo di me, uno stralcio dei miei pensieri, che ora non sembravano più miei. Mi tornarono alla mente quelle parole di Thomas Mann: “per essere veri creatori bisogna essere morti”. Sul momento esitai un po’ a definirmi creatrice, forse perchè quel mio primo tentativo di scrittura fu solo il prologo striminzito di una produzione ben più ampia ed elaborata, ma mi sentii, per un attimo, in una strana condizione a metà tra la vita e la morte. Il flusso delle mie idee scorreva impetuoso, e quelle lettere che avevo partorito lo circoscrivevano entro un’area limitatissima.
Continuai a scrivere tutte le sere, per acchiappare quel segreto che – crudele! – si divertiva a sfuggirmi. Scrivevo pagine fitte: qualche accenno di racconto, un’analisi dotta di qualche testo, una semplice pagina di diario.
Iniziai a temere quei fogli bianchi per una sorta di insaziabilità della scrittura. M’assalì una voracità devastatrice.
Come sempre accade, questo furore si trasformò, pian piano, in insoddisfazione. E tutto ricominciò di nuovo daccapo, in un circolo vizioso di vita e morte.
Ora, sul comodino, una pila di libri giace inerte. Chissà perchè, mi chiedo, tendo a non finire più i libri che inizio. Con gli occhi semichiusi, intravedo qualche titolo sfocato e, a fatica, tento di ricordarmi qualcosa, sia pure un minimo dettaglio, di quelle pagine. Più sono numerose, più mi sembrano benevole nei miei confronti: mi accolgono nella loro lentezza, nella vividezza delle descrizioni di cui sono impregnate. Pur non distinguendo con chiarezza le lettere impresse sul dorso del libro più spesso, so già di cosa si tratta. Fu una lettura difficile – penso mentre affondo la testa nel cuscino – eppur magnifica. C’era un’aria tersa il giorno in cui la conclusi. Avevo alzato gli occhi e mi ero concessa qualche minuto per ritornare in me: mi tastai le gambe, mi sfiorai le braccia e finalmente tutta la bellezza criptica di quelle interminabili pagine penetrò fin nelle profondità delle mie ossa. Era così bello essere una persona nuova.
Ora il senso di quelle pagine mi sfugge. Mi rigiro nel letto tentando di riafferrarlo – tentando, così, di riafferrare la persona che ero stata in quelle pagine –, ma mi ritrovo sola con me stessa, senza più neanche la promessa di una metamorfosi.
Non sono più in me, lo sento: altrimenti non mi sarei alzata dal letto con ferma decisione, non avrei spalancato la finestra, non avrei afferrato quel volume impolverato e – no, no di certo – non avrei iniziato a sfogliarlo.
La rabbia che ora straripa e distrugge ciò che ha intorno non è la mia. Da troppo tempo non provavo più neanche l’accenno di un qualche tumulto. Questa furia che sta mettendo in soqquadro la camera non può essere la mia, mi dico mentre scaravento a terra oggetti sparsi, fogli pieni di calcoli, matite mangiucchiate negli attimi di nervosismo.
In questa esaltazione, l’occhio mi cade su tutti gli altri libri che ho collezionato con zelo negli anni. Ci sono titoli che, ora, non mi dicono più nulla. Sono tutte le vite che non posso vivere. Sfogliando quelle pagine ripenso a quanto forte fosse il desiderio di far mia ogni parola, ogni nozione, ogni storia, e con quale sforzo cercassi di far confluire quelle stesse storie nella mia: un bislacco tentativo di darmi un senso.
Allo stesso modo, avevo cercato di chiarirmi a me stessa scrivendo parole confuse. E non appena riacquisto un minimo di ragionevolezza, leggo ad alta voce una pagina, strappata per caso e gettata alla rinfusa vicino al cestino.
Risale ai tempi della mia breve rinascita. Scrivevo:
Ora che son tranquilla, posso ripensare a tutto con lucidità. Posso valutare i pro e i contro di ciò che prima mi pareva irrisolvibile, e posso farlo con un minimo di buon senso. Mi trovo, ora, nella miglior disposizione d’animo possibile, a metà strada tra l’incoscienza e la consapevolezza: il perfetto connubio tra coscienza di sè e disinteresse verso le proprie preoccupazioni. Quello che qualcuno chiamerebbe “slancio vitale”. In verità non ho granchè da dire, oggi. Sento solo un morboso bisogno di scrivere, quasi una necessità. Scrivendo mi do un motivo per dire a me stessa: io esisto ed è così, esattamente così che sono. Leggo le mie parole e penso: io sono tutto questo. Esisto grazie a questo.
Mi rialzo, e apro la finestra.
Mi sembra possibile ricominciare a vivere di nuovo.

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