Simpatia /sim·pa·tì·a/ [dal lat. sympathia, gr. συμπάϑεια, comp. di σύν «con» e πάϑος «affezione, sentimento»] sostantivo femminile: sentimento di inclinazione e attrazione istintiva verso persone, cose e idee.
“La guerra insomma era tutto quello che non si capiva. […] Uno è vergine dell’Orrore come lo è della voluttà. […] Di colpo scoprivo la guerra tutta intera. Ero sverginato.”
L. F. Céline, Viaggio al termine della notte
Quando lessi La Storia di Elsa Morante molto mi colpì quel puntualissimo ritratto d’un umanità umanissima, spoglia nella sua naturale finitezza, eppure sempre dignitosa, gravida d’un qualche senso che ne chiarisse l’esistenza.
Mia sorella nascose delle pietruzze colorate tra le pagine, e proprio ieri questo ricordo m’ha colpito a mo di folgore quando, sfogliandolo nel tentativo di combattere la noia, ho visto quei sassolini verdi cadere a terra e rimbalzare per la stanza, finalmente liberi dalla loro arcana prigionia.
Proprio quei sassolini hanno risvegliato in me il subitaneo ricordo di quella lettura, del caldo di quell’estate e del terrore che ci stringeva tutti al pensiero di una guerra imminente. E forse proprio per queste particolarissime condizioni mi capitò per la prima volta di capire un libro sul serio.
L’impotenza che ciascuno provava a starsene lì, piantato nella propria ordinaria quotidianità, è ancor oggi tanto difficile da descrivere. Ci si sentiva in difetto. Ci si chiedeva a cosa serviva tutta quella umanità che si cercava sempre di coltivare in se stessi, a cosa serviva quella tensione verso sentimenti nobili pur nella loro semplicità.
Queste piccole battaglie sempre rimanevano circoscritte nella sfera del privato, del singolo: l’umanità, in quell’estate rovente e belligerante, mi sembrò d’un tratto una questione strettamente privata, come la sublimazione dell’egoistica necessità di sentirsi benevoli e generosi. Ma nulla di più.
E in questa riduzione individualistica di un valore così intrinsecamente collettivo, tutto pareva disgregarsi ai miei occhi, come se le fondamenta delle mie illusioni fossero state definitivamente distrutte.
Eravamo egoisti, ed era difficile ammetterlo, seppur innegabile. Io stessa, nel mio egocentrismo, volevo solo essere giovane. Sull’uscio della maturità appena conquistata sentivo come un annuncio epifanico di una vita nuova che mi attendeva e che, anzi, già intravedevo in lontananza. Brulicava di opportunità, di cose nuove, luoghi mai visti e dolori inconcepibili.
Ma improvvisamente mi si pose dinanzi agli occhi la concreta possibilità che un qualcosa di sconosciuto, terribile e imprevedibile si calasse di soppiatto nella mia vita e l’annientasse. Gli uomini sono incapaci di vivere in un mondo dove il pensiero più stravagante può, in un attimo, entrare nella realtà, e dove il più delle volte vi entra, come un coltello nel cuore [1], e io questo coltello già lo sentivo affondare nelle mie viscere, inclemente.
Fu proprio questa angoscia sibillina, difficilissima da comprendere nella sua interezza, ad accompagnarmi durante quei mesi afosissimi, concedendomi poche e saltuarie tregue. In fondo, non ci credevo davvero, alla guerra. Era una cosa vecchia cent’anni, lontanissima. Eppure alla televisione passavano le immagini di bambini mutilati e uomini uccisi, e tutti, a tavola, fissavamo lo schermo inermi, continuando a mangiare pur mentre il cronista confermava che sì, neanche quel giorno, tra le macerie, era arrivato di che nutrirsi a sufficienza.
Ci bastava abbassare il volume e anche quella tragedia si trasformava in un brusio sommesso, di cui non distinguevamo più i contorni, come una favola raccontata ad un bambino già mezzo addormentato. Ciascuno tornava a curarsi dei propri drammi privati, e in questo mondo tutto individuale brancolavamo annaspando tra le nostre misere preoccupazioni. E dopo pranzo anche noi andavamo a riposarci, intontiti da quel mangiare così avido, con lo stomaco pieno. La guerra era tornata ad essere un fatto altro, anch’essa una favola.
La preoccupazione più insostenibile ci abbandonava non appena terminava quel brevissimo contatto con l’aldilà. Ne rimaneva, poi, come una scia sbiadita, che definitivamente scompariva quando tornavamo a dedicarci alle nostre faccende quotidiane.
Non facevamo parte anche noi di quell’umanità mutilata che moriva dinanzi ai nostri occhi? forse, come quando ci si rompe un arto e l’altro ancora funziona, incurante, così anche noi avevamo l’obbligo di continuare con le nostre vite e dedicare ai nostri simili nulla di più di un pensiero di compassione.
L’individuo è misura di ogni tragedia: e la disperazione che ci saliva alla gola alla vista di tutti quei morti non dipendeva da un nobilissimo senso di appartenenza alla medesima specie, da una sorta di universale senso di comunione e simpatia, quanto piuttosto dalla prospettiva agghiacciante che tale sorte ignominiosa poteva, da un momento all’altro, riguardarci da vicino. E uno s’immaginava la propria casa ridotta in pezzi, le proprie radici brutalmente estirpate dalla terra degli affetti; uno s’immaginava di non essere più, e tanto era assurda questa concezione, tanto ci era estranea, che a fatica riuscivamo a deglutire pensandoci nelle vesti di quei corpi ancora giovani, di quelle vite a metà.
Non che ci fosse qualcosa di autenticamente maligno, in questo nostro inconsapevole individualismo, eppure questa dicotomia insanabile (questo senso di compassione che ci legava agli altri solo in quanto rappresentazioni di noi stessi) sembrava incredibilmente ipocrita.
E dicevo, dunque, quell’estate, che fu come il prologo di un’imminente apocalisse, ci turbò tutti. Perché si ricominciava a parlare di bombe, di eserciti, di tregue non rispettate e di armi devastanti: e nessuno aveva voglia di sentire queste cose. Noi che nella nostra normalità ci limitavamo ad andare al mare e a lamentarci della canicola giacevamo oppressi nella nostra placida impotenza. Quegli uomini che avevano il potere di decidere erano liberi, tremendamente liberi, e noi eternamente succubi delle loro libertà malate, degenerate: per la prima volta ci sentivamo inetti e terribilmente soli.
Tra le pagine consunte leggevo di legami forti, saldissimi: leggevo di un’umanità che pur nella tragedia si raccoglieva attorno ad un focolare comune con la stessa ingenua fiducia dei bambini, forse solo per un arcano senso di condivisione, inspiegabile nel suo essere quasi cabalistico, primitivo e spontaneo. E questo affetto così profondo mancava. Mancava quasi a tutti. Forse proprio perché sentivamo parlare di guerra in sordina, da lontano, forse proprio per questo eravamo tutti frammenti di un’umanità profondamente divisa.
Nel delirio delle mie farneticazioni, iniziai quasi a chiedermi se non ce la meritassimo tutti, questa guerra di cui tanto si parlava. Forse avevamo tutti da espiare un peccato gravissimo, un’onta esiziale, e la Storia ci offriva la possibilità di ritrovare quell’ancestrale senso di empatia che, col tempo, s’era arrugginito.
Fuori al terrazzo, quando la sera offriva un breve ristoro dall’insopportabile calore mattutino, giocavamo a carte e mangiavamo la granita, quasi costringendoci a rimanere calmi, a rimanere spensierati, ad andare avanti con le nostre vite. Mia nonna cantava a bassa voce delle vecchie canzoni (lei aveva sempre in serbo una canzone da canticchiare per ogni occasione) mentre cuciva a macchina, e in quel suo mormorio trovavamo tutti un po’ d’allegria, quel po’ che ci bastava per dimenticare la morte e tornare a contare le carte.
[1] Caligola, A. Camus


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