Dizionario – “Arrembante”

Arrembante /ar·rem·bàn·te/, aggettivo: che si lancia con veemenza alla conquista di qualcosa.

Cercare di superarmi.

Tentare sempre di esplorare un aldilà che intravedo a malapena da lontano. Io posso essere più di ciò che sono ora. Posso diventare quella potenza creatrice che ho sempre desiderato essere. Sento che c’è un mondo (che è al contempo dentro e fuori di me) che gioca a nascondersi dietro tutti i libri che non ho ancora letto, dietro tutta la conoscenza che mi sfugge, dietro alle parole che non comprendo, dietro alla bellezza che non posso contemplare. 

Riuscire a superarmi…

Quella bambina che di notte – anche stanotte! – viene a lacrimare sul mio petto smonta ogni illusione di grandezza e maturità. Pur non dicendo nulla, mi pare che i suoi singhiozzi sussurrino parole di monito. Ognuno ottiene sempre dalla vita ciò che vuole. Se questo (mi guardo attorno) è ciò che volevo, allora queste sono lacrime vane.

Mi alzo dal letto. Ho in bocca il sapore della cena che ho mandato giù con nervosa voracità. La bambina l’ho mandata via, per adesso, ma sento che tornerà presto ad infastidirmi con il suo egoistico bisogno d’attenzione.

A passi tardi e lenti  mi trascino in bagno e mi guardo distrattamente allo specchio. Di me non rimane più niente. Un pezzo di carne, una faccia stanca con dei capelli secchi attaccati in cima, un’espressione indifferente.

Forse quell’inquietudine che sempre mi assaliva quando ero giovane — e cioè il timore di aver sprecato i miei anni migliori nel tentativo di superarmi, nella smania di disvelare un segreto che i miei occhi miopi non hanno mai saputo decifrare — ora m’ha consumata. Mi ha scavato le guance e infossato gli occhi. 

Ieri sera è venuta a trovarmi Angelica. Prendo nota di questo fatto perché sul momento m’è sembrata una cosa tanto straordinaria da doverne lasciare una qualche traccia. Mi ha detto che faceva tardi, l’ho aspettata con il batticuore fino alle nove. Non capita tutti i giorni che qualcuno venga a farmi visita: il tempo dell’attesa si dilata — è un filo che quasi si spezza — mentre l’emozione mi agita, mi ravviva. Sono un fremito, queste mie attese. 

Mi sono truccata. Ho coperto gli aloni scuri attorno agli occhi: sono tornata in vita per qualche ora. Ho persino acceso quella luce del bagno sullo specchio che mi fa apparire più bella quando mi guardo. 

Lei è arrivata, alla fine, ed era solare come al solito. Chissà quanti anni avrà ora, ho pensato. Chissà quanti anni ho io, mi chiedo ora che scrivo. Non lo ricordo con precisione. Un po’ eccentrica, Angelica, ma sempre elegante nelle parole e nei movimenti: quando parla pare che danzi con la lingua tra una lettera e l’altra, e che assapori senza fretta la dolcezza dei suoi stessi discorsi. Accompagna il tutto con un movimento morbidissimo della mano, che si muove in aria come a voler mimare qualcosa di indecifrabile — quando eravamo piccole, pensavo volesse, con quella carezza al vuoto, dimostrarmi con quanta tenerezza avesse scelto, per me, quelle parole. Quando ascoltavamo Scarlatti, sedute davanti al giradischi, canticchiava tra sé le melodie che più le piacevano e mimava per gioco — sempre mimava con le mani qualcosa! — un pianista indaffarato a ricordare tutte quelle note. Suonava su tasti d’aria, e ridevo della sua genuinità.

Nei miei ricordi d’infanzia, ha sempre sul volto un’espressione al limite tra la preoccupazione e il lieve sollievo che le cose materiali inevitabilmente trasmettono all’animo umano. Anche ieri ce l’aveva, nonostante la pelle cadente del viso trasmettesse un’illusoria serenità senile: lo vedevo, quel broncio malcelato che faceva capolino tra le sue dolcissime parole.

«Ho tanta paura di morire», mi ha detto poi all’improvviso. Ecco, anche stavolta l’ha fatto. Ha alzato la forchetta e ha quasi disegnato un cerchio in aria, mentre masticava quelle parole dense e lapidarie con la sua solita compostezza. 

«Ho tanta paura di morire anch’io», le ho mentito. Mi era sembrata una frase di convenienza, una cosa che necessariamente avrei dovuto dirle.

«Chissà che cosa si prova», ha continuato poi, «a morire. Spesso me lo immagino, ma è uno sforzo tanto grande che mi sembra quasi di uscire da me per fondermi con qualcos’altro». Pensosa, riflettendo sulle ultime parole, ha posato la forchetta, bevuto un sorso d’acqua, e mi ha chiesto se avessi intenzione di finire la cena. Le ho detto che no, non avevo fame, che poteva tranquillamente finire di mangiare lei al posto mio.

«Credi che sarà brutto?» 

«Cosa?»

«Morire»

Ho pensato a qualcosa di intelligente da dirle. Quando ho alzato lo sguardo, ho visto nei suoi occhi un barlume di vita fioco, flebile, eppur presente: mentre in me non v’era più traccia di alcuna giovinezza. Forse io già lo sapevo, come era brutto morire, perché mi sono uccisa consacrandomi al culto dell’eccesso, dell’insoddisfazione, della corsa, dell’affanno e ora, stanca, mi crogiolo in una pigra autocommiserazione.

Immagini veloci e fulminee: qualcosa di indefinito che riporta alla mente scene di tranquille vicende familiari, l’amore di mia madre, l’amore di mio padre, dei miei fratelli e delle mie sorelle; qualcosa che ricorda vagamente tutto questo, tutta la meraviglia e lo stupore e, soprattutto, la grande, grandissima fiducia di cui il mio animo era impregnato fino al midollo. Niente di preciso, però, niente di definito, solo onde di immagini che mi riportano alla mente memorie che temevo perdute. Ricordo una grandissima e implacabile sete di comunicazione, il bisogno non metabolizzato — percepito solo sotto forma di impulso e necessità implacabile — di buttarmi a capofitto tra le altre persone: di vivere e sperimentare tutto al massimo grado d’intensità.

Qui, credo, aveva avuto inizio tutto.

Poi, dopo troppe corse, mi sono fermata, odiandomi. C’è stato il profondissimo vuoto dopo la furia dell’esaltazione.

Lessi Petrarca e (tronfia di questa mia inclinazione intellettuale) iniziai ad etichettare il mio male accidia. Soddisfatta della mia scoperta, mi abbandonai con ancor più decisione al mio avvilimento. Respingevo con forza le voci confuse e mi fingevo forte di fronte all’altro. Ero grande d’una grandezza latente, perché la vera sfida – quella che ognuno affronta giornalmente faccia a faccia con se stesso – non avevo neanche il coraggio di iniziarla, troppo presa dal paralizzante conflitto che mi dilaniava dall’interno. 

Forse l’accidia non è mancanza di cura, ma una cura eccessiva per le cose inutili. Un’esacerbata attenzione nei confronti del proprio ego, con conseguente disinteresse verso il mondo.

Mi sono chiesta più volte se io non facessi tutto ciò per un odio spropositato nei confronti di me stessa. Arrivai a capire, poi, che invece io mi amavo, e mi amavo di un amore così grande e sproporzionato che, nel ricercare le motivazioni di questo amore, rimanevo a mani vuote. 

Mentre sorseggio il mio caffè, con gli occhi sempre fissi sul verde luminoso degli alberi della vicina, ripeto queste parole a bassa voce, nel silenzio della cucina vuota. Non meriti di amarti tanto. Risuonano tra le pareti spoglie, s’insinuano nelle crepe sottili, mi penetrano fin nel midollo e mi scuotono d’un brivido. Chissà cos’è questo amore che ciascuno prova nei confronti di se stesso, mi chiedo. Chissà perché è così necessario e così problematico. 

Per un attimo, mi balenano davanti agli occhi scene fulminee: dolci ore d’amore, tenere gentilezze, meste parole di conforto, Angelica che ieri mangiava anche il mio cibo e continuava a parlare di cose che non capivo ma che mi ispiravano una terribile malinconia. Rivedo amici e amanti che hanno trovato in me una confidente, un esempio da seguire, una compagnia piacevole. 

Ora sono sola in cucina. Ero sola, da giovane, nell’aula affollata dell’università, sola quando torno a casa, sola mentre giaccio languida nel letto ormai vuoto. Ho amato e ricevuto amore finchè ne sono stata in grado: ora, orbata della mia dimensione corporea, non riesco più a percepirmi. Come posso amare qualcosa che non comprendo? qualcosa di tanto amorfo e indefinibile? Le mie pretese mi hanno estirpata con violenza dalla calda terra fertile degli affetti: ora non sono più nulla, perchè non esisto per nessuno.

Sì, avrei dovuto scrivere della serata con Angelica, ma la verità è che non ricordo più com’è finita. 

Sembra che per me non esista altro che io. Sono un colosso imponente che adombra tutto il resto.

Ho iniziato a scrivere cose confuse gettate alla rinfusa tentando di definirmi: con il risultato che ora, ai miei occhi, sono ancor più amorfa di prima.

Quando Angelica se n’è andata, le sue carezze all’aria sono rimaste ancora un po’ a tenermi compagnia, ma per poco, pochissimo. Poi ho spento le luci e sono tornata nella mia stanza, sotto le coperte, a rintanarmi tra le lenzuola, abbraccio d’una madre compassionevole.

Anche nel silenzio mi pare di sentire le parole lamentose di quella bambina che speravo di aver mandato via una volta per tutte. C’è tanto orgoglio in quello che dice, tanta superbia, ma in fondo glielo perdono. 

Tale è sempre stata la mia natura: portata all’eccesso in ogni cosa. 

Ora non mi sento più in grado di demolire la mia pigrizia a suon di volontà ed entusiasmo, ma prima, quando ancora mi attendevano giorni chiari e luminosi, resuscitavo rapidamente dal sonno inibitore in cui periodicamente sprofondavo con una forza che mi sorprendeva. 

Continua a parlarmi con la sua falsa ingenuità – cosa darei per zittirla! –, e mi dice cose crudeli, subdole, che mi rimangono incollate addosso. 

Mi dice che alla fine non mi sono superata affatto. Che sono morta. E che forse Angelica aveva ragione: sono uscita fuori di me e mi sono fusa con qualcos’altro. Qualcosa di immenso, di vuoto, di tremendamente silenzioso.

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