La “Cura”, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia
fatto, interviene Giove. La “Cura” lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la “Cura” pretese imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle fosse imposto il proprio.
Mentre la “Cura” e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso vive lo possieda la “Cura”. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra).Martin Heiddeger, Essere e Tempo
La cura (dal latino cura, -ae), in ogni sua declinazione e nella contraddizione insita nella parola stessa, è l’essenza più intima della nostra umanità. Essa è amore, generosità, ma anche inquietudine, affanno, preoccupazione: una vox media fortemente contraddittoria e gravida di significati.
Il suo primo significato è quello di sollecitudine: è il sentimento che ci allontana dall’egoismo della nostra individualità e ci consente di stipulare un tacito pactum societatis con il prossimo. Questa sollecitudine è, generalmente, indirizzata all’allontanamento dei mali fisici mediante la medicina; più raramente, essa si trasforma in cura per l’anima.
L’antitetico dualismo che lega indissolubilmente l’anima e il corpo sembra trovare una parvenza di unità e di compiutezza nell’essere umano, e già i greci avevano ben compreso che è impossibile (o, meglio, completamente inefficace) preoccuparsi di curare i mali del fisico tralasciando le ferite dell’anima. Nel Carmide, ad esempio, Platone si esprime circa la necessità di educare medici che sappiano curare l’anima. Scrive, infatti:
[…] diceva, infatti, che tutti i mali e tutti i beni per il corpo e per l’uomo nella sua interezza sono generati dall’anima e da lì si espandono, proprio come dalla testa fin sugli occhi.
Anche la filosofia orientale posteriore si basa quasi interamente sulla necessità della “cura dell’animo”. Basti pensare, ad esempio, allo Zen oggi tanto inneggiato dagli occidentali che, risucchiati in un vortice di produttività e guadagno, anelano alla tranquillità olimpica che sola potrebbe lenire gli affannni dello spirito. Sempre nel Carmide, Platone si sofferma sulla natura di questo φάρμακον senza il quale non sarebbe possibile medicare i mali dell’animo: la parola, la dialettica, lo scambio proficuo di idee, i καλοὶ λόγοι sono gli unici rimedi contro l’infiacchimento dello spirito. Il logos è l’essenza stessa della salvezza dell’uomo, la più compiuta attuazione dello spirito apollineo nietzschiano: esso mette ordine lì dove non ce n’è e illumina l’animo ottenebrato dall’oscurità del dubbio. Il dialogo si configura come l’unica via d’uscita da quella ἀκηδὶα un po’ oraziana e un po’ petrarchesca, che è negazione assoluta di ogni forma di cura nei confronti di se stessi.
Circa questa cura sibi, Epicuro (e, in generale, tutti i suoi discepoli) dissertarono a lungo, guadagnandosi l’immeritato attributo di edonisti. Nei fatti, essi predicavano l’esatto opposto: il benessere personale era, per loro, raggiungibile esclusivamente mediante un distacco completo e radicale da ogni forma di turbamento. Nell’Epistola a Meneceo, Epicuro analizza la natura dei desideri umani: essi sono in parte fisiologici (φυσικαί) e in parte vani, effimeri e superficiali (κεναί). L’assenza di turbamento può essere conquistata solo mediante l’attenta analisi di questi desideri: Epicuro utilizza, non a caso, il termie θεωρία, che sta ad indicare un’analisi profonda, attenta e meditata di un determinato fenomeno. Una volta chiarita la natura dei propri desideri, solo allora l’animo può liberarsi di quelli vani e assecondare quelli necessari. In questo modo, l’uomo riesce a placare la furiosa tempesta dell’animo (τῆς ψυχῆς χειμών) e appropriarsi della serenità. Questa tranquillitas animi è il fine ultimo della ricerca epicurea: scrive, infatti, il filosofo greco:
[…] e, nei fatti, tutto quello che facciamo è volto a questo, e cioè non soffrire e non essere turbati
L’ἀταρασσὶα epicurea è stata a lungo considerata come l’unico vero atto di cura che un uomo potesse rivolgere a se stesso. Il fine, che rimane pur sempre il medesimo, e cioè stornare i mali dell’anima, viene raggiunto non attraverso il confronto salvifico con il prossimo ma attraverso la ricerca del “giusto mezzo”, dell’equilibrio e dell‘otium. Qualche secolo dopo, Orazio scriverà:
[…] auream quisquis mediocritatem / diligit […]
riprendendo non solo gli antenati epicurei, ma anche la lirica greca arcaica (basti pensare, ad esempio, a Mimnermo).
Queste tematiche furono molto care anche agli intellettuali romani posteriori: Plinio il Giovane, infatti, si concentra sulla necessità dell’otium per il raggiungimento della propria salvezza spirituale. Nella lettera a Canino, ad esempio, scrive:
[…] (che puoi dirmi circa) quella tranquillissima vita nei dintorni; quel porticato dov’è sempre primavera; quel platano che offre un’ombra tanto grande; quel corso d’acqua dall’acqua verde e limpida; quel lago che, sotto di voi, vi accoglie; quella via dal suolo morbido o solido; quel bagno sempre circondato e irraggiato dal sole; quei triclinia per pochi o per molti; quelle stanze per ristorarsi di giorno o di notte? Questi luoghi
giovano della tua presenza e se la contendono? oppure, come sei solito fare, te ne tieni lontano per le frequenti visite alla tua terra? Se (quei luoghi) ti possiedono, allora sei un uomo felice e beato; altrimenti, sei solo uno qualunque tra tanti.
Questa descrizione sembrerebbe tratta da una Bucolica di Virgilio; o, forse, parrebbe una descrizione del κήπος di Epicuro. La natura assume i connotati di un eden irenico, idilliaco: è quel luogo in cui è aprile tutto l’anno (per citare Màrquez), l’unico posto in cui l’uomo può riconnettersi con la propria dimensione più intima e nascosta ed essere davvero uomo. Solo qui, nel placido silenzio delle campagne, è possibile attuare il tibulliano anelito alla vita iners. La natura, nella sua semplice e inequivocabile autenticità, è la sola capace di riportare l’uomo ad una primitiva condizione di purezza e candore.
Perso in questo paradiso terrestre, l’uomo ha la possibilità di dedicarsi allo studio delle humanae litterae che sole gli consentono di scrutare a fondo la propria natura di essere umano: come Machiavelli nella celeberrima Lettera a Vettori, così anche nell’Epistola di Plinio il Giovane lo studium assume un forte connotato salvifico. Il proprio patrimonio intellettuale è l’unico κτῆμα εἵς αἰεὶ (possesso per l’eternità) che ci è dato possedere, ed è l’unico sollievo che ci è concesso di conservare nel tempo.
Abbozza e plasma qualcosa che sia per sempre tuo (effinge aliquid et excude,
quod sit perpetuo tuum). Alle cose rimanenti, toccherà un altro padrone dopo di te, e poi un altro ancora: quella sola non cesserà di essere tua, se una volta sola lo sarà stata.
La liberazione delle passioni inneggiata dagli epicurei viene, così, attuata mediante lo studio e il distacco dalla vita cittadina e dai turbamenti legati alla ricerca di successo e ricchezze. Doveroso è, a tal punto, citare la prima elegia del primo libro del Corpus Tibullianum, in cui il poeta pone l’uomo dinanzi ad una scelta kirkergaardiana, un aut-aut: da un lato, la tranquillità di una vita quieta, trascorsa immerso nella natura; dall’altro, l’affannosa e ambiziosa corsa all’oro e alla notorietà. Il tema dell’elegia potrebbe essere, in senso lato, proprio la ricerca di un remedium curarum, la ricerca di una cura alla cura.
Ecco che, a questo punto, tutta la potenza evocativa del termine cura che abbiamo discusso precedentemente inizia a far sentire la sua eco.
[…] E non vedi
come la natura null’altro ci chiede, se non
che dal corpo stia sempre disgiunto il dolore e che nella mente (essa)
possa godere di un senso di gioia, lontana dalla preoccupazione e dalla paura?
scrive Lucrezio nel De Rerum Natura. Egli, in questo caso, attribuisce al termine cura il significato di preoccupazione. Sembra quasi un concettoso gioco d’eristica, uno scherzo dialettico, eppure è proprio così: l’unico vero atto di cura nei confronti di se stessi è quello di abbandonare ogni cura.
Lucrezio sembra dirci, in questi versi, che la piacevoleza e la serenità sono bisogni ancestrali, atavici, dettati dalle imperscrutabili leggi della Natura: l’essere umano è naturalmente alla ricerca del bello e dell’amenità. L’anelito al piacere non è inteso nel senso edonistico del termine, ma si inserisce in una visione più tersa e razionale in cui i piaceri sono un vero e proprio balsamo per lo spirito e non lo imputridiscono con la loro efferratezza.
[…] quando, tuttavia, (si sta) tra gli amici sdraiati sulla
molle erba lungo un fiumiciattolo, sotto
i rami di un alto albero, con mezzi tutt’altro che opulenti
e piacevolmente ci si ristora, tanto più
se il tempo è favorevole e la dolce stagione
cosparge di fiori i prati verdeggianti
Questi sono i piaceri che danno sollievo all’anima: sono i piaceri per nulla opulenti, che si conquistano senza fatica, stando sdraiati iucunde sull’erba assieme alle persone care. Sono quei piaceri che Vitaliano Brancati seppe ben descrivere, secoli dopo, con una chiarezza e una lucidità uniche, in un piccolo volume (intitolato, per l’appunto, I piaceri) in cui risuonano chiare eco lucreziane.
L’uomo smette di essere tale quando abbandona tutto questo: quando non si preoccupa più nè dei mali corporei, nè dei mali spirituali; quando si abbandona ad uno stato di inerme inettitudine e si condanna ad una perpetua insensibilità nei confronti degli altri e di se stesso. L’accidia è l’antinomia della cura: è una condanna che rompe ogni legame sociale e annichilisce qualsiasi desiderio di riscatto. Come accennavo prima, Orazio ben descrisse questo sentimento devastatore nell’Epistola a Celso Albinoviano, in cui scrive di non curarsi più di alcunchè, di essere infastidito dai medici e dagli amici fidati e di sentirsi malato più nella mente che nel corpo. Nel ‘300, Petrarca si farà interprete di questa potenza devastatrice e, nel Secretum, tenterà di trovare un rimedio a tale deplorevole condizione. Si potrebbe quasi pensare che, vista l’impostazione dialogica del testo, il Petrarca concepisca come prima ed essenziale cura per l’accidia il logos Platonico per poi arrivare, infine, alla tanto attesa conclusione rivelatrice: te tandem tibi restitue, scrive, sulla falsariga del “conosci te stesso”.
Cos’è, dunque, la cura? Essa è conoscersi, perchè solo così ci si può amare e si può desiderare il bene per se stessi e per il prossimo, accettando tutte le preoccupazioni necessarie e inevitabili con animo sì consapevole ma mai sconvolto.


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