Lettera ad un’amica
Ti lasci vincere troppo spesso.
Cara amica, com’è che ti dai subito per vinta?
Ti scrivo per cercare di colmare questo abisso che intercorre spietato tra noi due, nel tentativo di comprenderti meglio — e, attraverso te, di comprendere meglio anche questo guazzabuglio che ho qui dentro.
Sai, cara amica mia, forse il fallimento non è così tremendo. Forse siamo noi che lo carichiamo di grevi significati che in realtà non gli appartengono.
Sono certa che la tua paura più grande è morire insoddisfatta. Eppure le tue aspettative sono così alte che talvolta ti chiedi: non è forse l’insoddisfazione l’obiettivo che inseguo? Ah, amica mia, eterna infelice! Sempre a dannarti — per cosa, poi?
So bene che le tue percezioni troppo vivide della realtà ti stordiscono. Colori troppo accesi, suoni troppo definiti, sensazioni totalizzanti. So anche che spesso ti illudi, con un po’ di superbia intellettuale, di essere tra le poche privilegiate in grado di assaporare la vita fino in fondo e di comprendere la realtà in tutta la sua profondità… e l’attimo dopo crolli, pezzo dopo pezzo, assieme alle tue certezze: ecco che, con la tua solita prontezza, capisci di non aver capito un bel niente. Immagino che tu debba sentirti come un viandante che perennemente s’illude di aver intravisto, nella foschia, un luogo in cui ristorarsi.
Dunque, sì, dicevo — ho divagato come mio solito —: morire insoddisfatta.
Cos’è che vuoi? E soprattutto, vuoi? Hai mai analizzato la tua volontà? Sappiamo entrambe che non fai altro che autosabotarti. Forse fallisci sempre perché è questo che vuoi.
Allora, credo sia giunto il momento di prendere posizione contro questo patetico tentativo di autodistruzione. Ti dirò io cosa succede dentro di te.
Temi così tanto un insuccesso che hai interiorizzato profondamente ogni minima imperfezione, perfino quelle che ancora non hai affrontato, ma che potresti affrontare in futuro. Ebbene, ti sono penetrate fin nel midollo, fin nel punto nevralgico della tua coscienza eccitata, ed ecco spiegati quei sogni tanto tristi che fai la notte e la tua incapacità di essere combattiva.
Cara amica, vorrei sapere: tu vuoi essere una vincente? O è una scusa che propini a te stessa, con vergognosa fronte, come a volerti giustificare, come a voler dare un senso alla tua esistenza che sembra non andare concretamente da nessuna parte?
Forse è questo il cuore del problema. Forse ti sei solo smarrita tra tutte le domande che affollano la tua mente stanca, e qualsiasi strada provi ad imboccare ti sembrerà sempre la strada sbagliata: è questo relativismo che ti opprime.
Immagino che tu abbia una gran sete di verità. Immagino che, tra te e te, speri che arrivi un profeta a dirti cosa fare, come vestirti, in che modo scandire le parole, quando fare l’amore, quando tacere, quando parlare.
Perché ogni tua decisione ti appare come la massima espressione di uno spirito debole e incapace? Devi smetterla di ripensare al sangue, alle cicatrici, alle umiliazioni che architettavi nella tua mente ad ogni minimo accenno di sconfitta. Appartengono al passato.
In fondo so che ti ammiri. Che ti ami di un amore sproporzionato. Forse sei tanto delusa perché da tempo hai iniziato a ricercare le cause di questo amore senza trovare granché.
Cara amica, perché hai tanta paura? Percepisco dal tuo sguardo che i tuoi timori sono indefiniti, numerosi e senza forma. Immagino che tu ti senta persa, che tu non sappia dov’è che stai andando.
Riesco a sentire — come fosse il mio –- il nodo allo stomaco che ti toglie l’appetito e la concentrazione. Immagino come tu debba sentirti spaesata tra la miriade di cose che vorresti fare, di viaggi che vorresti intraprendere, di fatti che vorresti sapere; e immagino anche che tu non ti sia mai sentita all’altezza di nessuna di queste imprese. Ti guardi allo specchio e non riesci a vedere altro che un essere come tanti, troppi altri, sommerso nel mare della propria mediocrità.
Le parole che scrivi non ti sembrano abbastanza vere. Non ti sembrano abbastanza. Scrivi e rimani insoddisfatta. Ogni giorno è sempre la stessa lotta sconclusionata contro te stessa: provi a superarti, a creare qualcosa che vada al di sopra di te, ma raramente ci riesci, e di fronte al confronto crolla tutto con devastante facilità.
Sai cosa penso, amica? Che in verità tu stessa faccia fatica a trovare la ragione del tuo malessere. Senti che soffri e basta, ma non sai esattamente perché. Ti senti a disagio, inadatta al lavoro che devi svolgere, senza una meta precisa, così diversa dall’immagine idilliaca che gli altri hanno di te. Dev’esserci qualcosa di non manifesto che vive nel sottosuolo della tua coscienza e che, maligno, ti toglie il sonno e la serenità. Quella stessa cosa tempo fa ti costringeva a letto, apatica, accidiosa, lacrimante, senza interessi. Stanca. Affaticata.
Ti chiedo, pertanto, di prestarmi ascolto, di accogliere il mio aiuto.
So bene cos’è che vuoi. So anche che hai trovato mille giustificazioni di fronte a te stessa, farfugliando parole confuse al fine di scaricare le tue colpe su un’ entità dalla forma indistinta di cui tu saresti vittima.
Ora, finalmente, ti dirò cos’è che vuoi e, dal canto mio, vorrei che leggessi le mie parole ogni sera, prima di andare a dormire; e mi piacerebbe che ti penetrassero a fondo nella pelle, nelle ossa, e che tu ti avvalga di loro per quella definitiva rinascita che hai spesso, coscientemente o no, simulato di fronte a te stessa.
Riporterò alla tua mente uno scenario: una stanza illuminata, una donna alla scrivania. Ricordi la luce? Non emanava quella serenità ardente, quasi foriera di un’estasi piena e travolgente, che si percepisce nelle mattinate di luglio; era, piuttosto, una tranquillità saggia, mesta, olimpica, una piccola parentesi, un sospiro caldo in una giornata invernale. Ho sempre saputo, amica, che hai aspirato a farti personificazione di questa impalpabile percezione. Non puoi rinunciare all’introspezione e a quella lieve sofferenza che inevitabilmente si lega alle persone ambiziose, ma desideri la fermezza del saggio, quella stabilità che ti basterebbe a dedicarti come si deve ai tuoi studi.
Ricordi quella donna, poi? Parlava come ispirata da una musa. Ogni parola la pronunciava come se stesse compiendo un rito tributario a quella vita che tanto amava, a cui tanto era attaccata. Non hai mai smesso di ammirare la sua vitalità, l’enfasi con cui studiava per vivere e viveva per studiare. Una vita trascorsa così – ti sei sempre detta – è l’unica che, per me, varrebbe la pena di vivere.
Son certa che possiamo, insieme, limitare la tua fragilità: tu puoi essere quello che desideri, se è forte e ardente in te la volontà di diventarlo.
Più volte ti sei chiesta se, allora, il problema stesse proprio in quella volontà che troppo spesso viene a mancarti. Io sono qui, oggi, per ricordarti le vette a cui aspiravi un tempo – a cui, forse, aspiri ancora oggi, seppur con ardore insufficiente – e per tenere vivo, in te, il fuoco della passione.
Quante volte ti sei emozionata per un paio di parole scritte tra le pagine di un libro? Solo questo dovrebbe ricordarti quanto sia stata terapeutica la lettura, e quanto può esserlo ancora. Leggi, leggi, leggi, te ne prego, emozionati sempre come facevi un tempo. Risollevati dal baratro: leggi.
Quante volte ti sei sentita ribollire di un’incontenibile potenza creatrice? Solo questo dovrebbe bastare a ricordarti che, senza la scrittura, non saresti quella che sei. Ricordi quando scrivesti Leggo le mie parole e penso: io sono tutto questo. Io esisto grazie a questo? Ricordi quanto furono consolatorie? Perciò, ti prego, alzati dal letto, scuotiti dal torpore in cui sei caduta: scrivi.
Per non parlare, poi, di quando una singola nota sul tuo violino riusciva a placare ogni angoscia disperata. Ricordi il suono dolce, pulito, lirico, ricordi come ti riempiva il cuore di gioia?
Sulla musica ci sarebbe molto da dire; ti direi di ripensare a quelle notti insonni in cui, tra qualche lacrima, provavi un amore così intenso verso i Lieder di Schubert da sorprendertene tu stessa; di ripensare a quanti sogni ti hanno vista protagonista di un grande concerto — tu, al centro del palco, finalmente libera, al massimo del tuo splendore, della tua potenza, a suonare le note che hai sempre amato nel modo in cui hai sempre voluto; di passare in rassegna quegli attimi colmi di vita che solo la musica ha saputo donarti… queste visioni non ti inebriano più?
No, no, no: non lasciare che muoia tutto. Sii fertile, sii vita. Cerca, vivi, socializza: ama le giornate soleggiate, fai conoscenze, godi della compagnia degli amici, non cercare una bieca, meschina solitudine, spesso forzata.
Io so che solo in questo modo sarai te stessa. Solo così potrai realizzarti e conoscerti. Solo così potrai amare appieno ciò che fai e fare con dedizione ciò che ami. Devi essere piena, ricca, pregna: devi amare. Riempiti i polmoni d’aria pulita, d’aria serena, suona, scrivi, leggi, componi: è tutto quello che hai. Ignora lo strepitìo della folla e del mondo che cade a rotoli: vivi per te stessa.
Uno scrittore a cui ti senti tanto affine un tempo disse te tandem tibi restitue. Ed è, in sostanza, quanto ti consiglio vivamente di fare.
Fa’ che tu sia incarnazione di quella bellezza che sempre ti ha rinfrancata nei momenti grevi: nel modo in cui vesti, in cui parli, in cui cammini; nel modo in cui ami, in cui studi, in cui suoni.
Spero tu possa conoscerti, e viverti.


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