Due parole sulla furia di Re Lear

C’è qualcuno qui che mi conosce? Questi non è Lear. Che forse Lear cammina a questo modo? parla a questo modo? dove sono i suoi occhi? o la sua intelligenza è indebolita, o il suo discernimento è in letargo. Son io sveglio? no, certo. Chi è colui che può dirmi chi sono?

Ci sono versi, in queste pagine, così pregni, così densi e così meravigliosamente dolci ed eleganti che, con la stessa dolcezza che emanano, si scolpiscono a tratti decisi in quella che Kundera avrebbe chiamato la nostra memoria poetica

Di fronte ad ogni tormento, subito ci scopriremo a sussurrare sommessamente, parlando a noi stessi: “this tempest in my mind/ doth from my senses take all feeling else”, e forse ci faremo forza immaginandoci esattamente lì, nella furia della tempesta e, quasi inconsciamente, ricordando quanto le parole “but this heart shall break into a hundred thousand flaws/ or ere I’ll weep” ci siano apparse immense, lette per la prima volta; continueremo a camminare attraverso le intemperie con la stessa risolutezza di quel re dai sensi discordi e stonati tanto turbato dalla sua metamorfosi interiore.

Un passo dopo l’altro, implacabili come la furia stessa che conosce solo le leggi della sopraffazione, sentendoci forse più vicini che mai al tanto ricercato “senso della vita”, andremo urlando fiere sentenze rabbiose e dolorose, “Lacerate”, diremo, “i veli di cui pur v’ammantate, o delitti impenetrabili all’occhio”, e chissà se anche noi arriveremo a strapparci i capelli nel tentativo di dominare la collera della natura.  Con gli occhi socchiusi, doloranti, gelati dal vento indomabile, vedremo con chiarezza, ancor più nitidamente di quel che sembrerebbe possibile, tutto quel che ci era sempre apparso lontano, nebbia impenetrabile e inconsistente, e dilagherà nell’animo una vergogna senza argini nell’attimo stesso in cui prenderemo coscienza di ciò che i nostri occhi miopi non avevano potuto vedere. Questo è il principio di ogni metamorfosi.

Metamorfosi – nel caso di Lear – che può raggiungere la sua risoluzione solo nel momento in cui appare chiara, davanti agli occhi, quella verità secondo cui un essere è definibile autentico, umano, solo quando è l’espressione della sua reale natura interiore, quando è la cosa di per se stessa. Quella stessa verità che si può apprendere solo dinanzi ad un uomo ripudiato e spogliato d’ogni privilegio, lasciato solo con la sua essenza, senza possibilità di fuga, senza alcun nascondiglio in cui rifugiarsi.

È proprio attorno a questa sentenza che si radunano, ad uno ad uno, i vari personaggi, chi profondamente scosso, chi ostile e diffidente. E sempre attorno ad essa va pian piano costruendosi una storia che, come afflitta dalla stessa tempesta catartica che ne costituisce il nucleo narrativo, composta dalla stessa materia di cui son composti i turbamenti dell’anima e il vento violento e implacabile, ci costringe a volgere lo sguardo lì in fondo, verso il centro ardente della vita, e subito penseremo, con un po’ d’affanno, “o qual spavento non si trova e come prende a girare il capo se si getti un’occhiata laggiù nel profondo!”

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