L’epos primario della civiltà occidentale contiene al suo interno il primo nucleo di quelli che, con il tempo, si sono, poi, evoluti fino a diventare i fondamenti di un intero popolo: i grandi temi dell’amore, del viaggio e della guerra, gli ideali, gli stili di vita. Ma anche i tormenti individuali dell’uomo, affrontati in particolar modo nell’Odissea.
Nell’epos secondario, abbiamo invece lo sviluppo di questi temi, che vengono portati al massimo grado di profondità ed eleganza.
Prendendo come testi di riferimento Iliade ed Eneide, ho, dunque, ricercato il graduale cambiamento e la naturale evoluzione del concetto di “dolore”, quasi per tentare di comprenderne la poliedricità.
C’è, al centro dell’iliaco tumulto bellico, una presenza nascosta, una forza beffarda che guida i personaggi semicoscienti, in parte inebetiti dal fascino irresistibile di ciò che li domina: la guerra. Quella che Baricco definisce essere bella, l’unico riscatto possibile dalla penombra della vita.
È, forse, una forza ancor più potente dell’incontrastabile Fato e ancor più pericolosa, perché creata dagli stessi uomini mortali. È la stessa forza che attrae gli eroi assetati d’eternità, ed è la stessa artefice della loro più funesta e infausta illusione.
In quanto racconto di guerra, l’Iliade è, quindi, permeata di dolore. Un dolore intimamente connesso con la morte a cui, paradossalmente, tutti agognano per poter divenire immortali.
Ma può davvero definirsi tale? È, quello dei poemi omerici, un dolore struggente, che ci porta alla commozione e al patimento?
Analizzando quello che viene considerato come uno degli episodi più commoventi dell’intero poema (il discorso tra Ettore e Andromaca), ci si può benissimo accorgere come ogni parola di sofferenza sia come recitata da un attore ancora alle prime armi. Sono versi dolorosi (il fatidico addio degli amanti, che si cercano smaniosamente e che, ritrovati al confine tra Ilio e il campo di battaglia, tra vita e morte, tra pace e guerra, si dicono definitivamente addio) eppure ancora troppo compiti. Possenti, ma poco penetranti, specie se confrontati con quelli dell’epica latina.
“Infelice, la tua forza sarà la tua rovina […]; e se ti perdo, allora è meglio che muoia anch’io; non ci sarà più conforto per me se il tuo destino si compie, solo dolore.”
Una scrittura primitiva, un tentativo impacciato di trasformare in parole il pathos.
Ma forse proprio nella loro arcaicità si cela la bellezza e l’eternità di questi versi: poveri di fronzoli e giri di parole, concretizzano il dolore e lo trasformano in oggetto. Ti permettono di averlo davanti agli occhi: è una cosa.
Vi è, non a caso, un costante tentativo di rendere oggetti cose che oggetti non sono. In quanto poema nato e tramandato oralmente, la necessità più stretta era quindi proprio quella di garantire chiarezza nelle immagini, di assicurare che ogni concetto venisse reso “materiale” e quasi “plastico”, per fornirne la più chiara comprensione possibile.
Anche la ragione per cui Ettore è costretto ad abbandonare la moglie e il figlio appena nato diventa entità quasi materiale: la famosa “vergogna”, pena ancor più grande della condanna stessa, è un nemico da rifuggire, e da cui Ettore scappa buttandosi con impeto nella confusione orgiastica della battaglia.
“Ma è terribile la vergogna che provo davanti ai Troiani, alle Troiane dai lunghi pepli se, come un vile, mi tengo lontano dalla battaglia; me lo impedisce il mio cuore, perché ho imparato ad essere forte, sempre, e a combattere con i Troiani in prima fila, per la gloria di mio padre e per la mia gloria. […] Ma possa io morire, possa ricoprirmi la terra prima che ti sappia trascinata in schiavitù, prima che debba udire le tue grida.”
Libro VI, 407-499
Abbiamo davanti a noi l’immagine chiara e limpida dell’amante che tende invano le braccia verso l’amato, che è al contempo padre, amico e fratello, e sappiamo che entrambi soffrono, che entrambi si cercano, eppure tutto appare “distante”, come un quadro dipinto alla perfezione, ma statico e ancora irraggiungibile.
Cos’è il dolore, allora? Il dolore è una conseguenza intimamente legata al timore della morte. È una causa, una reazione inevitabile, quasi banale, scontata. È materia, e null’altro.
Andando un po’ in avanti nel tempo, tutto si dissolve e si concretizza nuovamente, ma in forma diversa. Per la prima volta, il dolore non è più una semplice conseguenza, ma diventa il vero e proprio motore di tormenti e tragedie.
Prima ancora di analizzare il celebre episodio dell’infelice Didone, sarebbe opportuno prestare attenzione a un altro passo che richiama all’addio sopracitato di Ettore e Andromaca.
Troia è in fiamme: una ferita inguaribile è oramai aperta nell’animo del pius Enea, che scappa dalle rovine di Ilio seguito dal padre Anchise, il figlio Ascanio e la moglie Creusa. È perduto ogni altro legame con la patria: frammentata, ormai, è l’antica identità. Ma nel frastuono, qualcos’altro rimane indietro.
“Non so qual dio
poco amico la mente allor mi tolse
trepidante, confusa: mentre a corsa
prendo fuor de le vie note a traverso,
ahimè! Creusa, dal destin rapita,
ristette? uscì di via? stanca si assise?
è incerto; e più non parve agli occhi nostri.
[…]
Qual fuor di me non accusai degli uomini
e degli Dei? qual più reo strazio vidi
ne la città distrutta?”
Il fantasma di Creusa si presenta, quindi, all’eroe: diventa un’immagine onirica, un’ombra lieve come un vento e similissima a un alato sogno. Il simulacro della donna gli parla, gli predice le incredibili imprese a cui è destinato e, poi, lo lascia solo, nel vano tentativo di stringerla a sé un’ultima volta.
Stavolta, il dolore diventa invincibile nostalgia, qualcosa di terribilmente astratto.
Enea, che in precedenza aveva data per scontata la presenza della moglie (“Segua discosta il nostro andar Creusa”), ora la cerca affannosamente. Anche se, in realtà, egli non è altro che un burattino guidato dalle abili mani degli Dei e, in quanto tale, non può volere. Il suo desiderio di ritrovare la moglie non è altro che un tentativo vano di indulgenza, come s’egli cercasse un modo per giustificare il precedente errore di valutazione; e perfino la morte di Creusa viene descritta come un evento già precedentemente architettato dalle divinità.
“Che giova abbandonarsi a un dolor folle,
dolce marito? Non senza il volere
degli Dei questo avvien.”
Libro II, 675-804
Il dolore di Enea non è, quindi, propriamente definibile tale perché, come ogni cosa, sfugge al suo controllo. È un tormento passivo, che gli viene imposto dall’alto. Ma ciò è anche funzionale al suo ruolo di eroe sicuro e determinato (perché ogni afflizione, specialmente se per amore, diventa sventura, perchè consuma, logora e, infine, distrugge).
E non ci sarebbe esempio più chiaro per sostenere quest’affermazione di quello della regina Didone, vittima e succube dell’antica fiamma che aveva inevitabilmente provato ad ignorare.
Il supplizio diventa morboso, implacabile, oserei dire affrontato con una sensibilità quasi da preromanticismo. Il desiderio diventa smania, affanno spietato e crudele.
“Fiamma divora l’intime midolle
intanto e muta in sen vive la piaga.
Arde Dido infelice, e forsennata
scorre per tutta la città, qual cerva
cui lunge incauta tra le macchie in Creta
un pastore, incalzandola di strali,
con un la colse e in lei lasciò l’alato
dardo senza saperlo.”
Libro IV, 65-72
Eppure, l’apogeo della sofferenza giunge ancor più tardi. Mene fugis? (“E fuggi me?”), chiede Didone incredula, quando l’amato è chiamato altrove dalle forze incontrastabili del destino. E allora il dolore diventa parossismo: indomabile bisogno di sofferenza e, infine, morte.
È delirio, allucinazione, tragedia. L’eros contrapposto al volere divino, di cui Enea è garante.
“Ma il pio Enea, benchè la dolorosa
brami di consolar con sue parole,
afflitto e il cuor d’amore intenerito,
pure ubbidisce al cenno degli Dei
e torna a’ suoi che più volenterosi
traggon per tutto il lido in mar le navi.
[…]
Quale a tal vista era il tuo cuore, o Dido,
quali i sospiri, mentre l’ampia riva
contemplavi gremir da l’alta rocca
e tutto sotto a te fervere il mare
d’immensa alacrità? Spietato Amore,
a che non sforzi tu gli umani petti?
Ella è sforzata di tornare a’ pianti,
di tornare a tentar con le preghiere
e l’orgoglio sommettere a l’amore,
supplice, sì che nulla d’intentato
inutilmente moritura ometta.”
Libro IV, 393-415
La potenza dell’immagine del suicidio di Didone trapassa il tempo e lo spazio. Diventa ella stessa personificazione del dolore: con le sue grida maledice ciò che in precedenza era stato fonte di sollievo e si abbandona alla morte, di certo più dolce di qualsiasi altra prospettiva.
Vinta da’ fati allor Dido infelice
morte chiama, la vista odia del cielo.
A far che nel proposito s’accenda
e fugga il dì, mentre poneva offerte
su gl’incensati altari, orrendo a dire!,
vide il liquor sacrato farsi nero
e il vin che si mescea torbido sangue.
[…]
Trepida allor e ne l’impresa atroce
Dido ardente, rotando occhi sanguigni,
sparsa di macchie le frementi gote,
pallida già de la futura morte,
nel cuore irrompe de la casa, in cima
al rogo sale furibonda e snuda,
dono non richiesto a ciò, la teucra spada.
[…]
“Morremo
invendicate, dice, e pur moriamo. Miri
questa vampa del mar l’empio troiano;
l’augurio abbia con sé della mia morte.”
Libro IV, 450-662
Avrei potuto citare innumerevoli altri esempi, eppure ho ritenuto più giusto limitarmi a questi per cercare di rendere il più chiara possibile tale metamorfosi: il dolore che da “cosa” diventa volontà imposta dal cielo e, infine, travaglio nefasto.
Fonti:
Iliade, Omero; “Classici Utet”; trad. Maria Grazia Ciani
Eneide, Virgilio; “Nicola Zanichelli editore”; trad. Giuseppe Albini


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