De profundis: l’identità non esiste senza l’Arte e senza il Dolore

Sapevi che cosa fosse per me la mia arte, come fosse la grande nota fondamentale per mezzo della quale avevo rivelato me stesso prima a me stesso, poi al mondo.

Quando si rende viva la materia dell’arte e l’arte materia di vita, è così facile, così spontaneo e naturale percepire ogni cosa al suo massimo grado di intensità. Così accadde anche per Wilde, Oscar Wilde, il “libertino, dissoluto” Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde, schiavo del Piacere e della spensieratezza – dei quali, però, non fu mai un fruitore superficiale. Pur imputandosi svariate colpe, riconosce, infatti, di esser sempre stato estraneo al “vizio supremo della superficialità” e alla fine, dopo aver assaggiato anche il pane del dolore, sembra quasi ergersi dall’alto di un podio e comunicarci, con uno sguardo trionfante, consapevole e maturo, di essersi completamente impossessato della sua vita, in ogni sua forma. Di averla accolta dentro di sè e di aver trovato in essa la più magnifica delle opere d’arte.

Dai più infimi bassifondi, egli risale dopo aver temprato il suo animo con un Dolore che è stato, in fin dei conti, per lui tanto salvifico: solo così ha potuto vedersi, nell’amarezza della solitudine, nel silenzio della cella, nella consapevolezza dell’isolamento. Perché il Dolore ha tolto ogni maschera e gli ha svelato perfino il significato più profondo di quell’Arte da lui tanto cantata e venerata, mai vista, prima di allora, con una tale completezza. È grazie al Dolore che la sua fusione con l’Arte giunge a compimento: egli esiste e ha trovato se stesso grazie ad essa.

Ora capisco che il Dolore, essendo la suprema emozione di cui l’uomo è capace, è insieme il modello e il banco di prova di tutta la grande Arte. L’artista è sempre alla ricerca di un modo di esistere in cui anima e corpo siano uniti e indivisibili; in cui l’esteriore sia espressione dell’interiore; in cui la Forma riveli l’Essenza.

L’arte è il mezzo attraverso cui viene resa possibile la continua e inarrestabile evoluzione dell’animo umano: se si è tesi verso ciò che è bello, verso ciò che è sublime, la sensibilità si affina e perfino la strenua ricerca di noi stessi diventa più fruttuosa. Tutto ciò che è in noi ci appare nella sua più indiscussa importanza e ciò che conta realmente è preservare questo tesoro da tutto ciò che alla nostra sensibilità appare estraneo, o perfino pericoloso.

Solo così possiamo avere un’idea più o meno chiara di ciò che siamo, di ciò che fummo e di ciò che abbiamo intenzione di essere. Il solo modo per farlo è essere estranei al vizio supremo della superficialità, che ci terrà sempre inevitabilmente ad una certa distanza da tutto ciò che è vero, profondo e autentico.

Soltanto rendendomi conto di ciò che sono ho avuto qualche conforto.

La più alta e nobile forma di metamorfosi è la conquista della maturità, che permette di lasciarsi alle spalle l’astio in favore di un più conveniente benessere provocato dalla disponibilità con cui si lascia spazio alla bellezza, in tutte le sue forme.

Può, dunque, l’arte essere il mezzo più efficace attraverso cui affermare e costruire la propria identità? un’identità che sia forte, ricca, poliedrica, e che ci dia una certezza, una rassicurazione – anche se esigua, talvolta – nei momenti di maggior sconforto? poter affermare: sì, eccomi, è così, esattamente così che sono, e sono in tutte le cose che faccio e che creo e in ogni cosa che comprendo appieno attorno a me.

Non esiste identità che non affondi le sue radici nella solitudine. Non parlo necessariamente di un isolamento forzato, duraturo, ma anche di qualche momento isolato in cui un individuo inizia, pian piano, nel silenzio, a raccogliere e mettere assieme tutta la moltitudine di residui che ha accolto in sè – pezzi sparsi di altre persone, reminescenze di sensazioni e impressioni, accenni di opinioni, parole che sembravano vuote, dolori che apparivano immotivati – per farne un quadro, un disegno. Prima, un abbozzo confuso, quasi percepito come estraneo, ripugnante; poi, un’immagine meno sfocata e sempre più completa, più ricca, meravigliosamente definita nei suoi particolari, eppure sempre mutevole, mai uguale a se stessa. Un’immagine che racchiuda in se’ tutto quello spirito vitale che fa della vita stessa un flusso inarrestabile che nasce e muore continuamente in se stesso.

Ogni parola di questa lettera tanto spassionatamente sincera – ogni parola tanto dolce, tanto pregna ed elegante assieme – ci suggerisce che bisogna fare del dolore un mezzo per giungere alle porte della più magnifica beatitudine e completezza spirituale. E cosa meglio dell’Arte potrebbe mai aiutarci in un percorso tale? cosa meglio di essa potrà rendere adatta la nostra sensibilità ad accogliere altra arte, altra bellezza, a fare di noi stessi un tempio di virtù? e ancora, come si può comprendere in che modo il nostro animo è disposto ad accogliere questa arte e sotto quale forma la predilige se non nel silenzio e nella vulnerabilità che caratterizza i colloqui con noi stessi?

Ecco come anche un tremendo esame di coscienza può diventare la più grandiosa delle rinascite. Il Dolore rende autentico uno spirito. Senza di esso, non c’è realizzazione di sè, perchè non ci si conosce, e per conoscersi bisogna pur soffrire, almeno un po’. 

Inutile dirti che per me le Riforme Morali sono altrettanto volgari e insignificanti delle Riforme Teologiche. Ma mentre il proponimento di diventare un uomo migliore è un atto empirico e ipocrita, diventare un uomo più profondo è il privilegio di chi ha sofferto; e tale credo sia il mio caso.

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