L’arte di insegnare

“La scuola funziona male perché si studiano cose che non servono”, mi disse un giorno un mio professore, tra una risata e l’altra, tentando forse di mascherare con la sua consueta ilarità una triste verità più profonda di quel che potesse sembrare all’apparenza.

Quell’uomo stimolò, così, la mia frenetica curiosità, tanto che per giorni mi persi in profondi abissi di riflessioni, in un’intensa attività di ricerca (minuziosa, attenta, scientifica quasi) del fenomeno che era stato posto alla mia attenzione: la preoccupante fallacia del sistema scolastico.

Analizzo il problema: la scuola italiana funziona male perché si studiano le cose che non servono. Rielaboro la frase per renderla il più possibile congruente alla realtà: la scuola non funziona perché le cose che servono vengono insegnate male; e mi propongo di utilizzare questa come lente attraverso cui osservare la situazione.

I fautori della sterile conoscenza puramente accademica sono coloro che più frequentemente si fingeranno affranti per la mancanza di spirito critico dei loro studenti, e intanto si limiteranno a recitare per l’ennesima volta lo stesso identico passo dello stesso identico libro, con l’aria paternalistica di chi, quel passo, l’ha capito molto meglio di chiunque altro.

Un contesto, questo, che potrebbe benissimo essere paragonato a quello industriale, in cui operai stanchi e insoddisfatti producono una serie tutta uguale di sonnambuli.

Studenti e insegnanti diventano, così, dotti, eppure profondamente ignoranti: osservatori superficiali della cultura che, violentata da occhietti borghesi e benpensanti, non è compresa nella sua interezza. Così, il più grande aiuto che il sapere può offrirci — quello, cioè, di lenire gli affanni dell’anima e, dunque, offrire una qualche ragione d’esistere — è stato da loro stessi cautamente riposto lontano dalla propria vista malfunzionante, in un cantuccio impolverato e inesplorato.

Gli alunni siedono dietro banchi che mai potranno scavalcare, bloccati come sono dalla passività con cui imparano a memoria versi, formule e date (lapidi immobili).

Lettori depensanti, automi che solo sporadicamente riprendono il controllo della propria testa per salvare quel po’ che rimane del proprio pensiero critico: giovani stanchi che non credono neanche di possedere in loro la forza di dare un senso alla propria esistenza.

Ecco, e ora voi mi direte che sì, son brava a far la predica ma ancora non vi ho presentato alcuna soluzione. Ebbene, la soluzione è: l’arte di insegnare. Perché insegnare è un compito tanto gravoso quanto pericoloso, ma salvifico per sé e per gli altri e, date le premesse, deve essere portato a termine con la minuzia con cui si cura un’opera d’arte.

Una classe (quattro mura, qualche sedia e altrettanti banchi) può diventare un vero e proprio laboratorio di vita, se si insegnasse a smascherare convinzioni pregresse e rielaborarle in cento modi diversi, ad esplorare molteplici sfaccettature di uno stesso argomento e a trarne (persino dal più improbabile) un valore in cui credere (o non credere) da aggiungere al proprio bagaglio etico. Utilizzando come mezzo la comprensione (non la mera assimilazione) della cultura, si è costretti ad affinare la propria sensibilità, che diverrà poi la lente attraverso cui si osserverà il mondo, lo si giudicherà e si agirà all’interno di esso.

Un buon insegnante non pretende di istituire cattedre delle virtù: non predica un dogma, nè dev’essere un profeta che annuncia una verità assoluta, ma propone, piuttosto, un certo modo di rendere utile una conoscenza che altrimenti sarebbe infruttuosa.

Forse (l’insegnante che opera così) è colui che dalla vita impara più di qualsiasi studente.

E allora, se la cultura diventa così appetibile, se il sapere ci viene posto davanti agli occhi in tutto il suo splendore – come se si mettesse un viandante affamato di fronte ad una tavola sontuosamente imbandita – diventa irrefrenabile l’impulso di donare tutta la propria vita alla strenua ricerca di questa conoscenza.

Quanto è potente, in me, l’ardore della scoperta quando mi ritrovo a rincorrere tutti i libri che ancora non ho sfogliato: in ognuno di essi si cela un mio pensiero ancora vergine e sconosciuto che mi attende, impaziente. E sono eternamente grata, ogni volta che ci penso, a tutti i docenti che, fin dalla più tenera età, mi hanno ammaliata con le loro parole.

Essi m’insegnarono a coltivare l’amore per ciò per cui ho scelto di immolarmi, e solo così riesco (talvolta..!) a vincere la desolante apatia della vita. M’insegnarono che, attraverso lo studium (che significa, prima di tutto, amore, devozione, passione, diligenza), potevo diventare creatrice di mondi.

Infine, l’arte di insegnare trova il suo massimo compimento nel momento in cui si diventa educatori non solo degli altri, ma anche (e soprattutto) di se stessi. Quando Cicerone diceva che non siamo propensi solo ad discendum ma anche ad docendum, intendeva esprimere (con parole certamente più concise ed eleganti delle mie) ciò che finora ho affermato con tanto affanno, e forse, chissà, che alla fine apprendere e insegnare (con instancabile e vivace motivazione) sono la stessa e identica cosa.

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