“Questo nostro mondo è un purgatorio di spiriti celesti ottenebrati da un pensiero peccaminoso”
L’uomo postmoderno, che ha vissuto il dramma della morte di Dio, si trova in un mondo fatto di “cose” sorde e inerti, mondo che gli appare totalmente estraneo ora che si è dileguata all’orizzonte l’immagine di un essere trascendente, un dio demiurgo, che avrebbe potuto colmare l’abisso esistente tra la sua ricerca di senso e l’insensato che lo circonda. Ma l’uomo non può rassegnarsi all’insensato, giacché è proprio l’esigenza del senso che lo costituisce come autocoscienza, e perciò continua a porsi sempre le stesse domande e a cercare la soluzione del problema dell’esistere.
In questa ricerca, in cui consiste la sua stessa auto-realizzazione, l’uomo è perennemente esposto a due contrapposte tentazioni: quella rappresentata dallo scetticismo, e cioè la resa al nichilismo, e quella rappresentata dal dogmatismo, cioè l’accettazione di una verità statica e definitiva. Sia l’una sia l’altra tentazione rappresentano la negazione dell’essenza autentica dell’uomo, e cioè rappresentano momenti di rinuncia e di stasi della dialettica di cui essa consiste, momenti di stanchezza in cui l’uomo cerca di sottrarsi all’angoscia del permanente stato di crisi. Ma noi siamo autenticamente vivi solo nella crisi, e cioè solo quando la critica e il rifiuto del senso fino ad allora accettato, invece di farci cadere nelle secche dello scetticismo, sono animati da un’immanente intenzionalità che ci spinge verso un’ulteriore soluzione, la quale, per evitare di cristallizzarsi in un dogma, verrà a sua volta sottoposta a critica e svelata nella sua inadeguatezza.
Tale è la dialettica della vita dell’uomo in cui egli si realizza come libertà, cosciente che ogni momento di arresto davanti a qualsiasi ostacolo può forse apparirci come un rifugio in un porto tranquillo e sicuro, ma in realtà ci è suggerito dal nostro istinto di morte.
“Il pensiero di Dostoevskij”, Gianlorenzo Pacini
Nella corrispondenza epistolare che segue questa eloquente introduzione di Pacini, subito si viene travolti dalla tipica avvolgente prosa dostoevskijana. Un ardore palpabile nell’esprimere forti ideali misto a un’incredibile vena artistica; un bisogno tormentato di scrivere, scrivere morbosamente tutto quello che una coscienza tanto sensibile come la sua era in grado di percepire al massimo grado.
Dio mio, quante immagini vissute e da me ricreate sono destinate a perire e a spegnersi nella mia testa, oppure mi si scioglieranno nel sangue come un veleno! Sì, se non mi sarà possibile scrivere io perirò. Sarebbe meglio venir condannato a quindici anni di carcere, ma con la possibilità di tenere la penna in mano.
F. Dostoevskij, lettera al fratello Michail, 22 dicembre 1849.
Di grande ispirazione per una pseudoscrittrice come me, queste lettere mi hanno dato parecchi spunti riflessivi sul modo in cui analizzare e osservare la realtà. Peccato che, dal punto di vista ideologico, io non mi sia mai trovata con la visione cristiana e nazionalista di Fëdor, tranne che per pochissimi aspetti; eppure, la bellezza artistica indiscussa dei suoi scritti spesso mi trascina irrimediabilmente con sé e riesco perfino a tollerare un pensiero che non si confà per nulla alla mia ideologia.
Di me Le dirò che io sono figlio del mio secolo, figlio della miscredenza e del dubbio, e non solo fino ad oggi, ma tale resterò (lo so con certezza) fino alla tomba. Quali terribili sofferenze mi è costata costa tuttora e mi questa sete di credere, che tanto più fortemente si fa sentire nella mia anima quanto più forti mi appaiono gli argomenti ad essa contrari! Ciononostante Iddio mi manda talora degl’istanti in cui mi sento perfettamente sereno; in quegl’istanti io scopro di amare e di essere amato dagli altri, e appunto in quegl’istanti io ho concepito un simbolo della fede, un Credo, in cui tutto per me è chiaro e santo. Questo Credo è molto semplice, e suona così: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, più simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c’è, ma addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere.
Lettera a Natalia Dmitrievna Fonvizina, 20 febbraio 1854
Quello di Dostoevskij non era un semplice desiderio, era il bisogno fisiologico e irrefrenabile di scrivere, scrivere ancora e ancora, la smaniosa esigenza di dar forma alle proprie idee, dar voce alle proprie impressioni, dipingere nel miglior modo possibile quella porzione di mondo sempre sotto assiduo attacco dei suoi attenti occhi osservatori.
O, amico mio, sulla realtà e sul realismo io ho ben altre idee che non quelle dei nostri realisti e critici. Il mio idealismo è più reale del loro, Signore Iddio! Se si raccontasse per filo e per segno tutto quello che noi tutti, i russi, abbiamo vissuto in questi ultimi dieci anni nel corso della nostra evoluzione spirituale, ebbene i realisti non si metterebbero forse a gridare che si tratta di una fantasia? E invece è proprio questo l’eterno, autentico realismo!
Lettera ad Apollon Nicolaevič Majkov, 11 (23) dicembre 1868
Fedele alle sue radici e sempre affannato nel disperato tentativo di difenderle dai disertori, si carica le spalle di grandi ideali da preservare, da portare in alto come vessilli della propria identità, e trova in questi ideali la base per costruire un saldo codice etico che lo accompagnerà per tutta la vita.
Si sono verificati dei fatti molto tristi, strazianti: una gioventù profondamente onesta e sincera, alla ricerca della verità, voleva andare incontro al popolo per alleviare le sue sofferenze; ma cosa è successo? Il popolo la rifiuta e la ripudia, e non riconosce l’onestà del suo impegno. Perché questa gioventù accetta il popolo non per quello che è, disprezza e odia le basi su cui esso poggia e gli propone dei rimedi che, agli occhi del popolo, sono assurdi e insensati.
Lettera agli studenti dell’Università di Mosca
Un insieme di valori che giustificherà l’intera sua esistenza, e ch’egli difenderà a spada tratta, come fossero l’unica indissolubile certezza. E scriverà ogni cosa, sì, ogni accenno di metamorfosi, scriverà sempre, per avere la prova concreta e tangibile delle sue idee, che altrimenti sarebbero rimaste inafferrabili perfino per lui.


Lascia un commento